Streghe, vampiri, mostri e fantasmi danzanti sotto una luna bagnata di pioggia. This is Halloween!
"Musica per non intenditori, appunti, arte, quisquilie e altre amenità di una vita per caso."
mercoledì 31 ottobre 2018
domenica 28 ottobre 2018
30-day song challenge
Le sfide musicali, quelle belle, disegnate per chi passa la vita e marca il fiume del suo tempo con le cuffie perennemente nelle orecchie. Per chi non riesce a scegliere un genere, perché di fronte al tutto musicale si sente come un goloso di fronte ad una scatola di cioccolatini millegusti. Tante note quante sono le emozioni possibili.
Day 1
Dall'album "Blues For The Red Sun" del 1992. Arido, ipnotico, intenso, potente ed aggressivo come ne ho mai ascoltati. Gli aggettivi e i pugni nello stomaco qui si sprecano.
***
Day 2
Dall'album "Stronger than Death" del 2000.
Ispirato e colpito da un pesante fatto di cronaca, Zakk Wylde scrisse questo pezzo.
Sì, pesante.
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martedì 10 aprile 2018
Vincenzo
Qua fuori sta arrivando una specie di tornado tropicale, nelle cuffie ho la mia canzone della pioggia, "La femme d'argento" degli Air a cullarmi i timpani. Tuoni e note hanno creato un circuito mentale che mi ha restituito alla memoria "Vincenzo". Amarcord.
"La Fiera" è il titolo di un breve racconto nato durante una delle mie esperienze su un forum con una comunità straordinaria. C'era un bell'angolo culturale e noi frequentatori avevamo messo in piedi un piccolo gruppo di scrittura creativa con il quale mi ero cimentata anch'io, che pure non avevo mai scritto nulla di più impegnativo di un diario, esperienza fortunatamente nata e morta in quell'ambito. Uno dei forumisti fungeva da arbitro e dava una serie di linee guida che ognuno di noi utilizzava per le sue produzioni come meglio riteneva opportuno, gli scritti venivano poi da lui pubblicati in forma anonima e ognuno era chiamato a dare pareri, critiche e opinioni con scambi talvolta vivaci, ma costruttivi. E' stato molto divertente finché è durata, non ne ho scritti molti e sono riuscita a salvarne ancora meno. Penso (e spero, pur con un certo scetticismo) che quel poco sia rimasto in qualche cartella del portatile.
Questo racconto in particolare è il frutto del secondo tentativo di rifare l'esperimento con un gruppo diverso (la comunità, nel frattempo, aveva cominciato a disintegrarsi), in questo caso sotto forma di concorso e se non ricordo male con questo nuovo gruppo ne avevo scritto soltanto uno, questo.
"La Fiera" è il titolo di un breve racconto nato durante una delle mie esperienze su un forum con una comunità straordinaria. C'era un bell'angolo culturale e noi frequentatori avevamo messo in piedi un piccolo gruppo di scrittura creativa con il quale mi ero cimentata anch'io, che pure non avevo mai scritto nulla di più impegnativo di un diario, esperienza fortunatamente nata e morta in quell'ambito. Uno dei forumisti fungeva da arbitro e dava una serie di linee guida che ognuno di noi utilizzava per le sue produzioni come meglio riteneva opportuno, gli scritti venivano poi da lui pubblicati in forma anonima e ognuno era chiamato a dare pareri, critiche e opinioni con scambi talvolta vivaci, ma costruttivi. E' stato molto divertente finché è durata, non ne ho scritti molti e sono riuscita a salvarne ancora meno. Penso (e spero, pur con un certo scetticismo) che quel poco sia rimasto in qualche cartella del portatile.
Questo racconto in particolare è il frutto del secondo tentativo di rifare l'esperimento con un gruppo diverso (la comunità, nel frattempo, aveva cominciato a disintegrarsi), in questo caso sotto forma di concorso e se non ricordo male con questo nuovo gruppo ne avevo scritto soltanto uno, questo.
La traccia data era semplicemente "Vincenzo", nessun altro parametro, e questo mio racconto era piaciuto parecchio. Nessuno dei partecipanti era riuscito a farlo risalire a me, pur conoscendomi forumisticamente da anni, ed erano rimasti tutti abbastanza increduli di fronte ai nomi dei vincitori. Il fraintendimento è la storia della mia vita.
Vincenzo aveva scovato il bambino, un esserino tutto pelle e ossa fragili, fra le bancarelle della fiera quand'era ormai buio pesto, mentre fuggiva inseguito da una grassa matrona berciante che pretendeva la restituzione delle frittelle di cui si era rimpinzato fino a scoppiare, dopo averle trafugate da un grosso paniere ricolmo posato accanto al grosso pentolone di olio bruciato e maleodorante. Lo aveva acchiappato al volo e non aveva fatto molta fatica a nasconderlo dietro il suo ampio corpo massiccio. Per sistemare la grassona era bastato un solo sguardo, abbastanza penetrante da intimorita e farla tornare sui passi come se fosse inseguita da un'orda di diavoli inferociti. Vincenzo pensò, con una curiosa sensazione di rimorso, che forse aveva esagerato un po' ma poi crollò le spalle, per quella notte non sarebbe stata affar suo.
Il bambino gli aveva piantato in faccia due occhioni ammirati e aveva teso fiducioso la manina scarna e sporca verso la sua, e insieme si erano diretti verso il muro di folla che riempiva le vie della città in festa. Teneva fra le braccia una minuscola palla di pelo sporca, puzzolente e miagolante. Più affamata di lui, il trofeo della giornata raccattato chissà dove.
- Come ti chiami? Da dove vieni? Che lavoro fai? - Aveva chiesto il bimbo con fare impaziente e vivace al suo nuovo amico, saltellandogli accanto per scaldarsi, mentre rabbrividiva. Vincenzo si era chiesto dove trovasse tutta quell'energia, doveva essere morto di fame. E di freddo, pensò mentre entrambi venivano investiti da una folata di gelido vento invernale.
- Mi chiamo Vincenzo, vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città, diciamo che lavoro nel sociale, mi occupo di persone bisognose di cure particolari. - Aveva risposto con un mezzo sorriso.
- E tu? Dove vivi? Dove sono i tuoi genitori e come ti chiami? -
- Vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città - rispose ridendo il bambino - Mi chiamo Luca. E lui è Miao - rispose indicando la pallottola di pelo. Gli raccontò di aver perso i genitori in un incidente d'auto quando era ancora molto piccolo e di essere rimasto solo al mondo, di aver vissuto per gran parte della sua vita in un orfanotrofio. Ma la rigida disciplina gli stava stretta e così era scappato e da allora viveva come il randagio che teneva fra le braccia, per strada. Dormiva dove capitava, era diventato abile nel rendersi invisibile e nel vivere di espedienti che gli permettevano appena di sopravvivere. Vincenzo pensò che solo un miracolo gli aveva permesso di sopravvivere in quella giungla, fiducioso com'era.
Calcolò che doveva avere all'incirca sette, otto anni, non di più, e forse poteva fare qualcosa per quel piccolo orfanello. Lo squadrò con occhio critico.
Era coperto solo da una maglietta strappata e sbiadita e da un paio di jeans che avevano indubbiamente conosciuto tempi migliori, ed era così sporco che un bagno non sarebbe bastato a levare le croste che lo ricoprivano dalla punta dei piedi al ciuffo nero di capelli ritti sulla testa. Vincenzo si fermò ad una bancarella e comprò un giaccone pesante che fece indossare al bambino, poi fu la volta di un panino imbottito, di una cartata enorme di caramelle, di un paio di scarpe calde e confortevoli e infine il bimbo indicò sorridendo un palloncino rosso appeso ad un filo.
Vincenzo, con il suo mezzo sorriso indulgente, pagava senza lamentarsi, con le tasche ricolme dei soldi generosamente donati da uno degli amici che avevano incrociato il suo cammino quella notte. Luca gli domandò se poteva dormire da lui per qualche giorno, dicendo che non sarebbe stato di disturbo, che era abituato ad arrangiarsi e che lui era un gigante, ma proprio simpatico. Con uno sfavillio negli occhi Vincenzo rispose che sì, viveva solo e che forse era possibile. Magari avrebbe ospitato anche Miao, che in verità non sembrava averlo preso in simpatia come il bambino. Non faceva altro che soffiare al suo indirizzo, povera creatura infelice. Poco male, pensò Vincenzo, nonostante l'avversione si sarebbe preso cura anche di lui.
Si erano incamminati nella notte alla ricerca di una panchina appartata per sedersi e chiacchierarono quietamente per ore, osservando i rari passanti finchè non rimase nessuno, il silenzio interrotto dai soffi rabbiosi del gatto, mentre a Luca si abbassavano le palpebre per la stanchezza, con la bocca atteggiata ad un sorriso.
Vincenzo decise che era giunta l'ora. Cullò Luca dolcemente fra le braccia mentre il bambino scivolava in un sonno eterno, senza dolore, senza sogni. Indugiò un attimo, poi posò lo posò sulla panchina e gli mise fra le mani il piccolo gatto dal collo spezzato. Mai più freddo, fame o solitudine. E nessun incontro con giganti meno pietosi di lui. Era un buon dono.
Staccò il palloncino rosso, una macchia luminescente e liquida fra le luci e le ombre del parco, dal polso scheletrico del bimbo e lo osservò volare via. La luna scintillò sulle zanne lasciate scoperte da un sorriso soddisfatto. Ripulì gli angoli della bocca e pensò che aveva ancora fame.
La Fiera
Vincenzo aveva scovato il bambino, un esserino tutto pelle e ossa fragili, fra le bancarelle della fiera quand'era ormai buio pesto, mentre fuggiva inseguito da una grassa matrona berciante che pretendeva la restituzione delle frittelle di cui si era rimpinzato fino a scoppiare, dopo averle trafugate da un grosso paniere ricolmo posato accanto al grosso pentolone di olio bruciato e maleodorante. Lo aveva acchiappato al volo e non aveva fatto molta fatica a nasconderlo dietro il suo ampio corpo massiccio. Per sistemare la grassona era bastato un solo sguardo, abbastanza penetrante da intimorita e farla tornare sui passi come se fosse inseguita da un'orda di diavoli inferociti. Vincenzo pensò, con una curiosa sensazione di rimorso, che forse aveva esagerato un po' ma poi crollò le spalle, per quella notte non sarebbe stata affar suo.
Il bambino gli aveva piantato in faccia due occhioni ammirati e aveva teso fiducioso la manina scarna e sporca verso la sua, e insieme si erano diretti verso il muro di folla che riempiva le vie della città in festa. Teneva fra le braccia una minuscola palla di pelo sporca, puzzolente e miagolante. Più affamata di lui, il trofeo della giornata raccattato chissà dove.
- Come ti chiami? Da dove vieni? Che lavoro fai? - Aveva chiesto il bimbo con fare impaziente e vivace al suo nuovo amico, saltellandogli accanto per scaldarsi, mentre rabbrividiva. Vincenzo si era chiesto dove trovasse tutta quell'energia, doveva essere morto di fame. E di freddo, pensò mentre entrambi venivano investiti da una folata di gelido vento invernale.
- Mi chiamo Vincenzo, vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città, diciamo che lavoro nel sociale, mi occupo di persone bisognose di cure particolari. - Aveva risposto con un mezzo sorriso.
- E tu? Dove vivi? Dove sono i tuoi genitori e come ti chiami? -
- Vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città - rispose ridendo il bambino - Mi chiamo Luca. E lui è Miao - rispose indicando la pallottola di pelo. Gli raccontò di aver perso i genitori in un incidente d'auto quando era ancora molto piccolo e di essere rimasto solo al mondo, di aver vissuto per gran parte della sua vita in un orfanotrofio. Ma la rigida disciplina gli stava stretta e così era scappato e da allora viveva come il randagio che teneva fra le braccia, per strada. Dormiva dove capitava, era diventato abile nel rendersi invisibile e nel vivere di espedienti che gli permettevano appena di sopravvivere. Vincenzo pensò che solo un miracolo gli aveva permesso di sopravvivere in quella giungla, fiducioso com'era.
Calcolò che doveva avere all'incirca sette, otto anni, non di più, e forse poteva fare qualcosa per quel piccolo orfanello. Lo squadrò con occhio critico.
Era coperto solo da una maglietta strappata e sbiadita e da un paio di jeans che avevano indubbiamente conosciuto tempi migliori, ed era così sporco che un bagno non sarebbe bastato a levare le croste che lo ricoprivano dalla punta dei piedi al ciuffo nero di capelli ritti sulla testa. Vincenzo si fermò ad una bancarella e comprò un giaccone pesante che fece indossare al bambino, poi fu la volta di un panino imbottito, di una cartata enorme di caramelle, di un paio di scarpe calde e confortevoli e infine il bimbo indicò sorridendo un palloncino rosso appeso ad un filo.
Vincenzo, con il suo mezzo sorriso indulgente, pagava senza lamentarsi, con le tasche ricolme dei soldi generosamente donati da uno degli amici che avevano incrociato il suo cammino quella notte. Luca gli domandò se poteva dormire da lui per qualche giorno, dicendo che non sarebbe stato di disturbo, che era abituato ad arrangiarsi e che lui era un gigante, ma proprio simpatico. Con uno sfavillio negli occhi Vincenzo rispose che sì, viveva solo e che forse era possibile. Magari avrebbe ospitato anche Miao, che in verità non sembrava averlo preso in simpatia come il bambino. Non faceva altro che soffiare al suo indirizzo, povera creatura infelice. Poco male, pensò Vincenzo, nonostante l'avversione si sarebbe preso cura anche di lui.
Si erano incamminati nella notte alla ricerca di una panchina appartata per sedersi e chiacchierarono quietamente per ore, osservando i rari passanti finchè non rimase nessuno, il silenzio interrotto dai soffi rabbiosi del gatto, mentre a Luca si abbassavano le palpebre per la stanchezza, con la bocca atteggiata ad un sorriso.
Vincenzo decise che era giunta l'ora. Cullò Luca dolcemente fra le braccia mentre il bambino scivolava in un sonno eterno, senza dolore, senza sogni. Indugiò un attimo, poi posò lo posò sulla panchina e gli mise fra le mani il piccolo gatto dal collo spezzato. Mai più freddo, fame o solitudine. E nessun incontro con giganti meno pietosi di lui. Era un buon dono.
Staccò il palloncino rosso, una macchia luminescente e liquida fra le luci e le ombre del parco, dal polso scheletrico del bimbo e lo osservò volare via. La luna scintillò sulle zanne lasciate scoperte da un sorriso soddisfatto. Ripulì gli angoli della bocca e pensò che aveva ancora fame.
domenica 8 aprile 2018
Steinbeck, e i quattordici anni.
Ci sono docenti che hanno la straordinaria capacità di entusiasmare e appassionare e questo dovrebbe essere il ruolo cardine, lo spirito guida di chi svolge un lavoro così importante.
Durante il mio primo anno delle superiori uno di questi artisti dell'insegnamento, un giovane supplente la cui faccia si è persa nella memoria, mi ha portata alla scoperta degli scrittori americani del novecento. Catturata semplicemente perché gli brillavano gli occhi quando ne parlava ed io ero terreno fertile. Ho sempre avuto una curiosità feroce ma anarchica e incostante (la mia rovina, perennemente), il programma scolastico è velocemente proseguito altrove ma lui non aveva la stessa luce negli occhi ed io ho continuato caparbiamente a leggere tutto quello che ho trovato nella piccola biblioteca di paese sugli autori americani, per mesi. La mia attenzione si era focalizzata soprattutto su Steinbeck, del quale avevo davvero letto una montagna di libri e che mi sono procurata, ora dovrò trovare uno spazietto per il resto dei volumi su scaffali che già gridano vendetta, ma li ho visti e mi hanno chiamata.
Ho deciso, appena finita l'abbuffata di curiosità morbosa sulla vita di Nureyev e Bruhn, di riprendere il filo interrotto di questo interesse, sono passati ben 33 anni e vorrei riafferrare, attraverso la rilettura di Steinbeck, la passione assoluta dei miei quattordici anni, quella che non mi permetteva mai di lasciare un libro prima di averlo finito, a costo di rimetterci la vista. Vorrei ricordare il motivo del mio amore viscerale per certi autori e per la lettura, quel qualcosa di indefinibile che faceva brillare i miei occhi mentre si perdevano su uno scaffale polveroso di una piccola biblioteca. Penso di averla persa, insieme alla capacità di sognare e annullarmi in mille vite e mille mondi.
Solo di uno dei minori ricordo le ragioni del sentimento, "La Santa Rossa", romanzo storico sulla vita di Henry Morgan abbastanza insignificante nell'importante produzione successiva. Ma viveva già in me la sindrome da ultima delle romantiche, buttata in un angolino buio e nascosto fra maree di pragmatismo e ironia. Ed è ancora lì, la bestiola, non si è mai fatta ammazzare dal cinismo della vecchiezza.
A presto, John.
Con Amore immutato.
Durante il mio primo anno delle superiori uno di questi artisti dell'insegnamento, un giovane supplente la cui faccia si è persa nella memoria, mi ha portata alla scoperta degli scrittori americani del novecento. Catturata semplicemente perché gli brillavano gli occhi quando ne parlava ed io ero terreno fertile. Ho sempre avuto una curiosità feroce ma anarchica e incostante (la mia rovina, perennemente), il programma scolastico è velocemente proseguito altrove ma lui non aveva la stessa luce negli occhi ed io ho continuato caparbiamente a leggere tutto quello che ho trovato nella piccola biblioteca di paese sugli autori americani, per mesi. La mia attenzione si era focalizzata soprattutto su Steinbeck, del quale avevo davvero letto una montagna di libri e che mi sono procurata, ora dovrò trovare uno spazietto per il resto dei volumi su scaffali che già gridano vendetta, ma li ho visti e mi hanno chiamata.
Ho deciso, appena finita l'abbuffata di curiosità morbosa sulla vita di Nureyev e Bruhn, di riprendere il filo interrotto di questo interesse, sono passati ben 33 anni e vorrei riafferrare, attraverso la rilettura di Steinbeck, la passione assoluta dei miei quattordici anni, quella che non mi permetteva mai di lasciare un libro prima di averlo finito, a costo di rimetterci la vista. Vorrei ricordare il motivo del mio amore viscerale per certi autori e per la lettura, quel qualcosa di indefinibile che faceva brillare i miei occhi mentre si perdevano su uno scaffale polveroso di una piccola biblioteca. Penso di averla persa, insieme alla capacità di sognare e annullarmi in mille vite e mille mondi.
Solo di uno dei minori ricordo le ragioni del sentimento, "La Santa Rossa", romanzo storico sulla vita di Henry Morgan abbastanza insignificante nell'importante produzione successiva. Ma viveva già in me la sindrome da ultima delle romantiche, buttata in un angolino buio e nascosto fra maree di pragmatismo e ironia. Ed è ancora lì, la bestiola, non si è mai fatta ammazzare dal cinismo della vecchiezza.
A presto, John.
Con Amore immutato.
sabato 7 aprile 2018
Pillole di insonnia III: Erik
"I was not born a dancer; I happened to dance..."
Ho trovato un libro su Erik Bruhn in inglese fra l'usato, mi arriverà dall'Irlanda e poi davvero chiuderò il cerchio. Evviva evviva. La biografia che mi interessava è solo in danese, ne ho trovato un riassunto su un forum russo che ho tradotto in italiano col traduttore, ma non è chiarissima, è un casino. Probabilmente non verrà mai tradotto in inglese, dovrò rassegnarmi.
E' basato su un'intervista di John Gruen e scritto in collaborazione con lo stesso Bruhn, le recensioni non sono del tutto positive ma ci accontentiamo.Erik Bruhn, l'uomo, mi incuriosisce da quando, tempo fa, cercando la Fracci sono incappata in un documentario su YouTube che parlava di lui, o meglio su di lui che racconta se stesso con quella voce che mi manda scosse giù per la spina dorsale (io e la mia passione per le voci...) e con incredibile candore. Delicato, profondo, avvolgente, trasmette la profondità dei sentimenti di chi ha voluto rendergli omaggio dopo la sua morte raccontando qualcosa che andasse oltre il famoso "Danseur noble" o l'amante di Nureyev:
Erik Bruhn: I'm the Same, Only More – A Personal Portrait of the Legendary Dancer (2002), di Lennart Pasborg, che la musica suggestiva di Palle Mikkelborg rende ulteriormente affascinante.
E' lui che mi ha portato ad approfondire la figura di Nureyev e non viceversa. Ma purtroppo su quello che era considerato all'epoca uno dei più grandi danzatori si trova veramente pochissimo in rete, qualche articolo, qualche approfondimento, un paio di documentari e della sua danza leggera, eterea, precisa non si trovano, per mia disperazione, che brevi spezzoni. Dei tempi d'oro, dei balletti che più mi hanno colpita o fra quelli citati come eccellenze non si trova nulla, pare non siano stati conservati. Ma capisco perfettamente come questo principe del ghiaccio e dei fiocchi di neve abbia potuto rapire totalmente Nureyev, e se potessi raccontarglielo questo incanto, non mi crederebbe mai. Il più feroce nemico di sé stesso, quest'uomo che fuori dal palco si sentiva invisibile.
Più ne leggo e più divento curiosa, non tanto del ballerino quanto dell'uomo nascosto dalla maschera della leggenda. Per lui prima veniva la sua umanità, la ricerca e la scoperta di se stesso come essere umano, e la danza, vista l'introversione e la difficoltà di comunicarsi, era solo il mezzo per esprimersi. E' curioso osservere che per Nureyev avveniva esattamente l'opposto, la danza e le potenzialità del corpo prima dell'anima, fino alle estreme conseguenze. Probabilmente questo approccio differente spiega anche il motivo per cui Bruhn, quando dovette rinunciare a ballare per motivi di salute, si reinventò con ruoli caratteristici e l'insegnamento (ed era uno splendido insegnante, apprezzamento che ho trovato spessissimo nelle varie fonti). Mentre Nureyev, quando il corpo ha iniziato a non seguire la volontà e non poteva più stare al centro della scena, è piombato nella disperazione e incapace di smettere è diventato solo l'ombra sbiadita della sua stessa grandezza. La contrapposizione totale, assoluta, di queste due personalità non smetterà mai di stupirmi.
Siamo, per alcuni aspetti, gemelli diversi. O meglio, lui era una bellissima silfide e io un bacarozzo, io non bevo come una spugna e non fumo fino ad uccidermi, non ho bellissime mani espressive, ma sono sicura che ci saremmo intesi alla perfezione, io e lui, senza parlare.
Le persone che mi piacciono o sono nate troppo presto, o nasceranno troppo tardi.
Ci incontreremo su una stella siderale, aspettami lì.
Le persone che mi piacciono o sono nate troppo presto, o nasceranno troppo tardi.
Ci incontreremo su una stella siderale, aspettami lì.
(E così. Sudato, scarmigliato, non laccato e sorridente per davvero. Forse.)
Per approfondire:
Per approfondire:
Una recensione della biografia in danese di Alexander Meinertz, “Erik Bruhn – billedet indeni” (The Picture Within), mai tradotta in inglese, quella che vorrei leggere di più. Maledetti.
Un raro documentario, in inglese ma abbastanza chiaro: ERIK BRUHN - ARTIST OF THE BALLET
Un articolo del NY Times: ERIK BRUHN - EPITOME OF THE DANSEUR NOBLE
Un file audio di un'intervista di Bruce Wall, studente di diciannove anni. Purtroppo l'audio non è per me chiarissimo e non ho trovato trascrizioni, solo un articolo di Wall con alcune citazioni della stessa. Penso fosse tutta molto interessante, disegna bene l'uomo che era.
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venerdì 6 aprile 2018
Pillole d'insonnia II e considerazioni sparse: Nureyev, the Life - Julie Kavanagh
"Rudi is an artist, an animal and a cunt"
(Jerome Robbins)
Presa dalla sindrome del mastino che non molla mai la presa, ho deciso di leggere anche questo bel tomo da 700 pagine. Perché se qualcosa tocca le corde della mia curiosità io devo approfondire.
L'ho comprato nuovo perché avevo letto recensioni positive, ma l’ho quasi finito e mi ha lasciata un po' vuota. Non ci sono eroi qui, è in definitiva una storia sordida e triste. E' ricco di dettagli sulla danza che sicuramente fanno la felicità degli appassionati, viene dato un posto di rilievo agli amici abituali e ai collaboratori stretti. Ci sono le lettere inedite che Bruhn scrisse a Rudik, lettere che in teoria Nureyev avrebbe dovuto distruggere in ragione di un patto fra i due amanti, patto a cui però tenne fede il solo Erik. Così dei sentimenti di Rudik è rimasto poco ed è una lettura a senso unico. Malvagio e scorretto Rudik!
Per quanto riguarda l'insondabile mistero dei rapporti umani in questo libro ho percepito una certa aridità, una distanza, soprattutto da un certo punto in poi. Dovuta, forse, al ritratto misero e meschino dell'uomo a contrastare la grandezza dell'artista. Triste.
Un eterno adolescente dall'energia sovrumana, estremamente carismatico e capace di stregare chiunque, vampiro egoista ed egocentrico incapace sostanzialmente di dare in cambio qualcosa rispetto alla quantità di bene ricevuto, se non in rari casi ad ancora più rare persone.
Un dio della danza votato solo alla sua arte come unica, sola, imprescindibile ragione di vita in nome della quale ha sacrificato tutto e tutti. A tratti tenero, a tratti patetico, a tratti perdonabile, molto imperdonabile. Fuori dal palco la sua vita era solo un'appendice, circondato com'era da persone servili e compiacenti, prone al suo enorme, incredibile ego. Eppure a volte non si riesce a non trovarsi inteneriti...c'è una profondissima solitudine, la paura onnipresente provocata dal sentirsi sempre braccati. L'abbandono totale degli affetti familiari. La fame vorace per ogni aspetto della vita a ricordare quella per il cibo subita da bambino.
Imperdonabile, ma comprensibile.
Prossimamente passerò ad altro, e quindi appunto qui qualche sega mentale molto personale, qualche considerazione sparsa.
Gironzolando in rete ho scoperto su un forum due foto che Nureyev teneva vicino al suo letto nella casa di Parigi, vendute poi all'asta da Christie's e ad una verifica sono effettivamente visibili in una foto della stanza. Erik Bruhn e Margot Fonteyn, le uniche persone che ha sempre dichiarato essere le sole amate.
La camera di cui parlo e i due ritratti visibili vicino al letto e che ho trovato in rete
(sperando di non infrangere nessun divieto, nel caso le toglierò).
Amore. Penso sia vero nel caso di Margot Fontayne, con la quale ha avuto un legame fortissimo ed eterno, nonostante la notevole differenza d'età. Alla quale deve moltissimo da un punto di vista professionale ma anche umano, ricambiando con assoluta riconoscenza e generosità.
C'è una mistero pettegolo che li circonda (hanno consumato oppure no?) ma un legame umano, lavorativo e spirituale di tale portata è già qualcosa di notevole. La passione fatta balletto. Io sono dalla parte degli scettici, a lui sostanzialmente non piacevano le donne (a volte sfiorava la misoginia) e il loro rapporto era secondo me di altra natura, quella di due spiriti affini e in perfetta simbiosi, il sesso sarebbe stata una complicazione, ma nella vita di due persone simili non ci può essere nulla di certo o di normale.
Margot per lui era "l'unica cosa che ho, la sola cosa importante": madre, amica, collega, compagna, confidente, complice, innamorata, famiglia, tutto. Ed erano sempre insieme, un filo diretto che non ha ceduto al passare del tempo. Ma amanti non credo: lui era follemente infatuato di Bruhn e lei amava suo marito, due rapporti fallimentari. Margot decise, con quell'incredibile tempra d'acciaio che la caratterizzava, di occuparsi del marito rimasto paralizzato in seguito all'agguato da parte di un uomo cornuto. Non era fedele il marito di Margot, era uno stronzo, ma alla fine è stato suo e lei ha danzato con incredibile caparbietà fino ai sessantanni per potersi permettere di pagargli le cure necessarie. Una donna incredibile, dotata di una lealtà sovrumana per i suoi amici.
Nel ritratto accanto al letto c'è una Margot splendente, immortalata durante una delle serate passate insieme al suo amico, complice e sorridente. Un rapporto strettissimo durato una vita intera, fino alla morte di Margot per cancro. Rudik non le ha mai fatto mancare la sua vicinanza, fisica e affettiva, fino all'ultimo respiro. E sì, se non è Amore questo mi chiedo cos'altro possa esserlo.
Nel 1965
Per quanto riguarda Bruhn sono arrivata alla conclusione che fosse amore a senso unico da parte di Erik, che ha amato il suo "bellissimo mostro" per quello che era, con la consapevolezza di un uomo di dieci anni più vecchio.
Anelava ad un rapporto stabile e lontano dalle luci della ribalta, lui che era introverso e avrebbe voluto farsi ombra, ma già sapeva sarebbe stato impossibile, per la lontananza dovuta alla professione, per l'ambizione di entrambi, per la legge degli opposti che si attraggono e nella storia di questo rapporto gli opposti sono assoluti.
Erik che era fedele e monogamo e non concepiva sesso e amore come qualcosa che non fosse un tutt'uno, al contrario di Rudi che notoriamente era un satiro che vedeva il sesso come valvola di sfogo. Con chiunque colpisse la sua fantasia e in totale spregio dei sentimenti dell'altro e che marcava nettamente il confine fra banale sesso e preziosa intimità.
Erik che era geloso di Margot e deve aver sofferto come un cane per questo. Che ha dato, ha insegnato e si è trovato alla fine di questa corsa esausto, sfinito, totalmente prosciugato e così provato dai continui tradimenti dell'amato mostro da rimetterci in salute e arrivare fin quasi alla morte.
Non che fosse l'amore perfetto, Erik, tutt'altro. Lui, che era sempre rimasto chiuso nel suo gelido guscio protettivo, non era pronto a questa furia, ne era spaventato e spiazzato e profondamente lacerato, complesso e pieno di demoni com'era, di fronte a quest'impeto ha sempre trovato sollievo nella fuga a gambe levate. Rudik scombussolava semplicemente un equilibrio faticoso, a volte non tollerava la sua vicinanza. Ma lo amava.
In alcuni punti le sue lettere sono strazianti, la loro storia tumultuosa e tormentata è esattamente quella di due pianeti che si attraggono, si scontrano ed esplodono. In qualche modo è riuscito a trovare una via di fuga, una rinascita dopo una profondissima depressione e due interventi allo stomaco e nonostante lo scontro epico di ego e di caratteri sia durato per tutta la vita, l'amore (o l'affetto) è sempre stato lì, lo si capisce dalle sue interviste.
Rudik invece quasi subito era rimasto deluso dall'uomo fallibile e imperfetto che era Erik. Beveva e tanto, tantissimo, troppo. Fumava ancora di più e aveva una risata spiazzante, carnivora abbinata un senso dell'umorismo tagliente e qualche volta orribilmente cattivo di cui era ben consapevole. Aveva la fama di uno difficile da avvicinare, e ubriaco lo era di più. Fragile per molti versi, come nella volontà di autodistruzione, ma anche d'acciaio per altri, nell'abnegazione che metteva nella passione per la danza che era la sua vita. Ben diverso dal dio ideale delle sue aspettative.
Eppure c'era quel modo etereo e pulitissimo di ballare, quella musicalità, quella sensibilità profonda, quell'elusività fredda come il ghiaccio che contrastavano l'indole sfacciata, completamente svelata e animalesca dell'altro. Inafferabile Erik. E finì per diventare una terribile ossessione. "He's so cold he's like ice: you touch it and it burns you", diceva di fronte ai filmati della danza di Erik che tanto lo avevano affascinato in Russia. E Bruhn era effettivamente la punta di un iceberg di un mondo insondabile e spesso oscuro e sfuggente. E Rudik era sempre, sempre incantato di fronte all'artista che era il suo punto d'arrivo ideale, ma inarrivabile nella sua perfezione, ammirazione che è diventata nel corso degli anni una competizione logorante da parte di entrambi. Non è riuscito a cannibalizzarlo totalmente come avrebbe voluto, c'è riuscito in buona parte con l'uomo ma non con la sua arte, e anche l'uomo alla fine è volato via.
Si è bruciato e questa follia è diventata "the Curse", qualcosa che avrebbe evitato come la peste in tutti gli anni a venire. Lo ha rincorso per anni prima di arrendersi, e non ha mai avuto il riconoscimento che tanto anelava rispetto alla sua danza (crudele Erik!).
Ed è arrivato tardi al suo capezzale quando stava morendo di cancro, quando Erik era ormai incosciente e perso per sempre dopo giorni in cui aveva chiesto con urgenza di lui, in un eterno rapporto fatto di vicinanze sfiorate ma mai raggiunte veramente. Senza potergli più parlare, si è steso sul letto e lo ha abbracciato nel delirio, vicinissimo ma ormai estraneo. Stavano progettando di ritrovarsi prima o poi ad invecchiare insieme in un bel posto, in Turchia o in Grecia, di aprire forse una scuola di danza e l'idea piaceva molto ad entrambi.
L'amore non sono sicura ci fosse davvero, probabilmente no, era ossessione e fame di possesso e penso che nel corso degli anni anche Bruhn sia affogato nell'ego smisurato di Nureyev. Ma se dovessi giudicare dai piccoli dettagli insignificanti, un sentimento c'è stato. Particolari come il sogno di due vecchi amici riuniti dalla danza in terre bellissime, come un dolore così grande di fronte alla morte da doverlo seppellire in un silenzio sordo e assordante. Come la foto privata di un uomo sorridente, con ancora tracce della memorabile bellezza di un Apollo, tenuta accanto al letto fino alla fine.
Del Bruhn intimo non parlava mai volentieri, meno ancora dei suoi sentimenti per lui, così come non ha mai chiarito il mistero dei suoi presunti rapporti sessuali con Margot e dell'effettivo legame con lei. Di Rudolf penso che la parte più interessante, affascinante e probabilmente la più umana e amabile, fosse quella piccola punta dell'iceberg rovesciato che non mostrava a nessuno, quello che questo mostro quasi interamente svelato al mondo teneva per sé. Quello che le biografie non possono raccontare, e questi misteri sono morti con lui.
Sul finire della propria vita Nureyev si innamorò perdutamente di nuovo, per la prima volta dopo Bruhn, di un giovane e bellissimo ballerino danese che, come palesava spesso col suo modo sfacciato, gli ricordava tremendamente il suo Erik, che avrebbe voluto plasmare come una progenie sua e di Bruhn. La loro eredità artistica. Un nuovo Erik ma più caldo, non caustico e sfuggente con il quale è stato estremamente generoso, di sé e dei suoi insegnamenti. Che però amava le donne e non si è mai concesso, che l'ha definitivamente respinto. Che si è fatto una famiglia e gli è sfuggito via. L'ossessione. E il karma a chiudere un cerchio.
Erik e Margot non si sono mai piaciuti...e questa è la fine di un film mentale che è probabilmente solo mio, l'ultima delle romantiche. E' stato un bel viaggio e penso seriamente di avere un futuro nel campo dei romanzi rosa per casalinghe disperate.
<3
Nel 1983, davanti al Met; tre anni dopo Bruhn non ci sarebbe più stato.
(Perché amo le foto della vecchiaia e dei segni sul volto di venticinque anni di sentimento, e queste mani che si toccano. Piccoli particolari.)
giovedì 5 aprile 2018
Pillole di insonnia: Diane Solway - Nureyev: his life.
Ogni volta che finisco una biografia mi sento orfana, defraudata e terribilmente sola, per cui pianterò qui uno spillo a memoria di queste vite straordinarie coperte dalla polvere degli anni e rivissute negli occhi degli avidi lettori insonni (e insani) come me.
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Fra le pagine ingiallite di questo libro usato ho trovato ad un certo punto Diane Arbus, la fotografia e l'insondabile mistero delle relazioni umane.
Due uomini, opposti e complementari in ogni minimo aspetto - personale, umano, caratteriale, professionale - si sono rincorsi, uccisi, amati, feriti, respinti, consolati, invidiati, sfidati, riconciliati e specchiati l'uno nell'altro per 25 anni e oltre, anche dopo la morte dell'uno fino al decesso dell'altro. Una collisione e un'esplosione di pianeti distanti di ghiaccio e fuoco che, ne sono sicura, è da qualche parte a rincorrersi armata di coltelli e a sfiorarsi le mani. A provare alla sbarra i passi di una danza infinita, in bianco e nero, l'uno di fronte all'altro.
E qui arriva lei, Diane, che cattura l'essenziale. Quello che mi ha colpita al primo colpo in questa celebre fotografia del 1963, più che la perfezione formale, è proprio lo specchio. Invertito. Rivelatore. Beffardo. In questa foto il casto, freddo e contenuto Erik è sfrontato, rilassato, a spalle scoperte, quasi provocante. E Rudik, l'esuberante, caldo satiro tartaro che non mancava mai un colpo, di contro sembra una pudica, timida educanda.
Vittima? Carnefice? Chi?
Diane, ti amo e ti amerò sempre.
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Fra le pagine ingiallite di questo libro usato ho trovato ad un certo punto Diane Arbus, la fotografia e l'insondabile mistero delle relazioni umane.
Due uomini, opposti e complementari in ogni minimo aspetto - personale, umano, caratteriale, professionale - si sono rincorsi, uccisi, amati, feriti, respinti, consolati, invidiati, sfidati, riconciliati e specchiati l'uno nell'altro per 25 anni e oltre, anche dopo la morte dell'uno fino al decesso dell'altro. Una collisione e un'esplosione di pianeti distanti di ghiaccio e fuoco che, ne sono sicura, è da qualche parte a rincorrersi armata di coltelli e a sfiorarsi le mani. A provare alla sbarra i passi di una danza infinita, in bianco e nero, l'uno di fronte all'altro.
Vittima? Carnefice? Chi?
Diane, ti amo e ti amerò sempre.
lunedì 22 gennaio 2018
100% Olio d'Oliva. Di Lavanda e di belle chiacchierate.
Un chilo di grassi
Olio di oliva 1000 g
acqua demineralizzata 310 g
soda caustica 129 g (sconto 6%)
20 g di olio d'oliva
mica viola un cucchiaino
mica perlescente bianca un cucchiaino
farina d'avena un cucchiaio
Era da molto che volevo replicare, l'avevo fatto proprio agli inizi ed oggi, dovendo spiegare e partire da qualcosa di semplice, era la giornata giusta. Abbiamo scelto di profumarlo con olio essenziale alla lavanda, profumo che ricorda il pulito e che piace tantissimo ad entrambe. La mia casa ora è immersa in profumi di campi provenzali e di spezzatino...
Ho tentato di renderlo bicolore, ma se non mi incasino non sono Isa, così mentre chiacchieravo ho inserito tutta la profumazione nell'olio miscelato alle miche e ho dovuto mescolare le due parti per distribuire la fragranza. C'è una sottospecie di swirl ma dubito che il risultato sarà eclatante, ha comunque l'aspetto semplice e rustico che prediligo per questo tipo di sapone.
In compenso ho passato davvero un pomeriggio meraviglioso, è sempre un dono poter condividere le proprie passioni con qualcuno che ha la capacità di ascoltare. Grazie infinite Sefora!!! <3
Ora è a nanna, al calduccio sotto la sua copertina, aggiornamento a fra un po' per il taglio.
Sformato in netto anticipo come al solito, non riesco proprio ad imparare l'arte dell'attesa. La verità è che ho solo un'esperienza precedente di parecchi anni fa rispetto a questo tipo di sapone e me lo ricordavo più solido. La prossima volta sicuramente sconto l'acqua e magari aggiungo del fruttosio al nastro per migliorare la schiuma.
Esteticamente è meglio di quanto pensassi, il colore naturale è un bel bianco panna e la mica viola ha dato esattamene il color lavanda che volevo! La morbidezza della pasta mi ha permesso di appiccicare sulla superficie una striscia di fiori di lavanda come effetto decorativo: si posso togliere durante l'uso e non intasano lo scarico. Dovrò avere molta, tantissima pazienza con il taglio e con la stagionatura, ma sono soddisfatta del risultato. Naturalmente è profumatissimissimo e la mia casa profuma di buono.
Aggiornamento 29 gennaio: avevo tagliato il sapone qualche giorno fa ma ha prodotto soapash a valanga (prima o poi dovrò informarmi bene sulle cause) e così mi sono trovata a doverlo rifilare. Si è anche indurito abbastanza per poterlo timbrare, ma adesso ho un mucchio di avanzi che dovrò riciclare. Non vedo l'ora di poterlo usare, ma ci vuole pazienza...! Le foto sono pessime e non rendono il colore di questo sapone che è risultato essere davvero molto carino.
SalvaSalva
domenica 14 gennaio 2018
Sapone alla seta profumato di rosa
Sapone alla seta profumato di rosa
Olio di oliva 550 g
olio di riso 150 g
olio di cocco 200 g
olio di ricino 50
acqua demineralizzata 310 g
soda caustica 137 g (sconto 5%)
soda per citrato 12 gr
acido citrico 20
un grammo di bozzoli di seta pura
un grammo di bozzoli di seta pura
al nastro:
50 g di olio d'oliva
mica rosa un cucchiaino
mica perlescente bianca un cucchiaino
ossido rosa un cucchiaino
biossido di titanio mezzo cucchiaino
biossido di titanio mezzo cucchiaino
fragranza rosa rossa (GC) 40 ml
Avevo montagne di sapone da smaltire e visto che la pila si è assottigliata, dopo una vita oggi mi sono finalmente decisa a fare un nuovo sapone. Purtroppo sono a corto di materie prima, fra quelle scadute e quelle andate a male, così ne ho approntato uno con i grassi che avevo a portata di mano e che mi sembravano ancora integri. Sicuramente sarà da consumare in fretta, per cui per me ne terrò giusto la quantità necessaria per testarlo, visto che ho deciso di introdurre un ingrediente per me inedito: la seta.
Il procedimento è sempre il solito: si pesano attentamente i grassi, l'acqua, la soda. Ho preparato la soluzione caustica e mentre si scioglie tutta peso la seta: un grammo per kilo di grassi. Ho sempre sentito raccontare meraviglie sulla seta in quanto a resa nel sapone, ma nel mondo dei saponieri so che si usa la seta tussah che io non sono mai riuscita a trovare, così ho buttato nella soda i bozzoli che avevo preso da tiger per altro scopo e che iddio me la mandi buona.
Anche perché potrei aver fatto una cagata.
Anche perché è una vita che non faccio sapone, tipo due anni? E sono impacciata.
Attendo impazientemente i 45° e finisco per usare il solito bagno freddo per velocizzare i tempi.
Unisco e frullo il tutto. Quando la pasta di sapone raggiunge il nastro è SEMPRE momento panico.
Al nastro leggero mi sento sempre una gran figa coi nervi d’acciaio.
Al nastro leggero mi sento sempre una gran figa coi nervi d’acciaio.
Poi mi accorgo che l’ultramarino non si è stemperato bene e ci saranno grumi di colore nel sapone finito, frullo troppo per tentare di rimediare e la pasta di sapone mi va in nastro avanzato, così faccio un casino quando lo verso negli stampi perché è troppo solido. Spargo sapone e utensili per tutta la cucina, sarà un piacere rimettere tutto in ordine.
Il colore è una merda ma profuma di rosa. Sarà pieno di bolle perché negli stampi c'è finito a cazzuolate ma è andata, lo metto a nanna per 24 ore e sarà quel che sarà.
Il colore è una merda ma profuma di rosa. Sarà pieno di bolle perché negli stampi c'è finito a cazzuolate ma è andata, lo metto a nanna per 24 ore e sarà quel che sarà.
Aggiornamento del giorno dopo: Naturalmente li ho sformati troppo presto, così la superficie non è bellissima, ma comunque era già segnata dalle bolle d'aria dovuto all'impasto troppo solido. Poco male.
Il colore non mi piace, è un rosino smorto e mi sono ricordata improvvisamente che non avrei dovuto usare l'ultramarino rosa per colorare il sapone, ogni volta è una delusione. Così ho passato sopra della mica di varie sfumature. Su alcune saponette ho sparpagliato dei brillantini, e l'impasto ancora morbido mi ha permesso di rifilare il fondo e di timbrarlo. Pensavo molto peggio, tutto sommato non sono male.
Il profumo si sente poco, la fragranza non era scaduta ma forse aperta da troppo tempo, era una bottiglia da 100ml e forse non saponificando spessissimo è il caso di acquistare formati più piccoli.
Ora aspetto la stagionatura per vedere se la resa qualitativa è all'altezza delle aspettative.
Il colore non mi piace, è un rosino smorto e mi sono ricordata improvvisamente che non avrei dovuto usare l'ultramarino rosa per colorare il sapone, ogni volta è una delusione. Così ho passato sopra della mica di varie sfumature. Su alcune saponette ho sparpagliato dei brillantini, e l'impasto ancora morbido mi ha permesso di rifilare il fondo e di timbrarlo. Pensavo molto peggio, tutto sommato non sono male.
Il profumo si sente poco, la fragranza non era scaduta ma forse aperta da troppo tempo, era una bottiglia da 100ml e forse non saponificando spessissimo è il caso di acquistare formati più piccoli.
Ora aspetto la stagionatura per vedere se la resa qualitativa è all'altezza delle aspettative.
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