"La Fiera" è il titolo di un breve racconto nato durante una delle mie esperienze su un forum con una comunità straordinaria. C'era un bell'angolo culturale e noi frequentatori avevamo messo in piedi un piccolo gruppo di scrittura creativa con il quale mi ero cimentata anch'io, che pure non avevo mai scritto nulla di più impegnativo di un diario, esperienza fortunatamente nata e morta in quell'ambito. Uno dei forumisti fungeva da arbitro e dava una serie di linee guida che ognuno di noi utilizzava per le sue produzioni come meglio riteneva opportuno, gli scritti venivano poi da lui pubblicati in forma anonima e ognuno era chiamato a dare pareri, critiche e opinioni con scambi talvolta vivaci, ma costruttivi. E' stato molto divertente finché è durata, non ne ho scritti molti e sono riuscita a salvarne ancora meno. Penso (e spero, pur con un certo scetticismo) che quel poco sia rimasto in qualche cartella del portatile.
Questo racconto in particolare è il frutto del secondo tentativo di rifare l'esperimento con un gruppo diverso (la comunità, nel frattempo, aveva cominciato a disintegrarsi), in questo caso sotto forma di concorso e se non ricordo male con questo nuovo gruppo ne avevo scritto soltanto uno, questo.
La traccia data era semplicemente "Vincenzo", nessun altro parametro, e questo mio racconto era piaciuto parecchio. Nessuno dei partecipanti era riuscito a farlo risalire a me, pur conoscendomi forumisticamente da anni, ed erano rimasti tutti abbastanza increduli di fronte ai nomi dei vincitori. Il fraintendimento è la storia della mia vita.
Vincenzo aveva scovato il bambino, un esserino tutto pelle e ossa fragili, fra le bancarelle della fiera quand'era ormai buio pesto, mentre fuggiva inseguito da una grassa matrona berciante che pretendeva la restituzione delle frittelle di cui si era rimpinzato fino a scoppiare, dopo averle trafugate da un grosso paniere ricolmo posato accanto al grosso pentolone di olio bruciato e maleodorante. Lo aveva acchiappato al volo e non aveva fatto molta fatica a nasconderlo dietro il suo ampio corpo massiccio. Per sistemare la grassona era bastato un solo sguardo, abbastanza penetrante da intimorita e farla tornare sui passi come se fosse inseguita da un'orda di diavoli inferociti. Vincenzo pensò, con una curiosa sensazione di rimorso, che forse aveva esagerato un po' ma poi crollò le spalle, per quella notte non sarebbe stata affar suo.
Il bambino gli aveva piantato in faccia due occhioni ammirati e aveva teso fiducioso la manina scarna e sporca verso la sua, e insieme si erano diretti verso il muro di folla che riempiva le vie della città in festa. Teneva fra le braccia una minuscola palla di pelo sporca, puzzolente e miagolante. Più affamata di lui, il trofeo della giornata raccattato chissà dove.
- Come ti chiami? Da dove vieni? Che lavoro fai? - Aveva chiesto il bimbo con fare impaziente e vivace al suo nuovo amico, saltellandogli accanto per scaldarsi, mentre rabbrividiva. Vincenzo si era chiesto dove trovasse tutta quell'energia, doveva essere morto di fame. E di freddo, pensò mentre entrambi venivano investiti da una folata di gelido vento invernale.
- Mi chiamo Vincenzo, vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città, diciamo che lavoro nel sociale, mi occupo di persone bisognose di cure particolari. - Aveva risposto con un mezzo sorriso.
- E tu? Dove vivi? Dove sono i tuoi genitori e come ti chiami? -
- Vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città - rispose ridendo il bambino - Mi chiamo Luca. E lui è Miao - rispose indicando la pallottola di pelo. Gli raccontò di aver perso i genitori in un incidente d'auto quando era ancora molto piccolo e di essere rimasto solo al mondo, di aver vissuto per gran parte della sua vita in un orfanotrofio. Ma la rigida disciplina gli stava stretta e così era scappato e da allora viveva come il randagio che teneva fra le braccia, per strada. Dormiva dove capitava, era diventato abile nel rendersi invisibile e nel vivere di espedienti che gli permettevano appena di sopravvivere. Vincenzo pensò che solo un miracolo gli aveva permesso di sopravvivere in quella giungla, fiducioso com'era.
Calcolò che doveva avere all'incirca sette, otto anni, non di più, e forse poteva fare qualcosa per quel piccolo orfanello. Lo squadrò con occhio critico.
Era coperto solo da una maglietta strappata e sbiadita e da un paio di jeans che avevano indubbiamente conosciuto tempi migliori, ed era così sporco che un bagno non sarebbe bastato a levare le croste che lo ricoprivano dalla punta dei piedi al ciuffo nero di capelli ritti sulla testa. Vincenzo si fermò ad una bancarella e comprò un giaccone pesante che fece indossare al bambino, poi fu la volta di un panino imbottito, di una cartata enorme di caramelle, di un paio di scarpe calde e confortevoli e infine il bimbo indicò sorridendo un palloncino rosso appeso ad un filo.
Vincenzo, con il suo mezzo sorriso indulgente, pagava senza lamentarsi, con le tasche ricolme dei soldi generosamente donati da uno degli amici che avevano incrociato il suo cammino quella notte. Luca gli domandò se poteva dormire da lui per qualche giorno, dicendo che non sarebbe stato di disturbo, che era abituato ad arrangiarsi e che lui era un gigante, ma proprio simpatico. Con uno sfavillio negli occhi Vincenzo rispose che sì, viveva solo e che forse era possibile. Magari avrebbe ospitato anche Miao, che in verità non sembrava averlo preso in simpatia come il bambino. Non faceva altro che soffiare al suo indirizzo, povera creatura infelice. Poco male, pensò Vincenzo, nonostante l'avversione si sarebbe preso cura anche di lui.
Si erano incamminati nella notte alla ricerca di una panchina appartata per sedersi e chiacchierarono quietamente per ore, osservando i rari passanti finchè non rimase nessuno, il silenzio interrotto dai soffi rabbiosi del gatto, mentre a Luca si abbassavano le palpebre per la stanchezza, con la bocca atteggiata ad un sorriso.
Vincenzo decise che era giunta l'ora. Cullò Luca dolcemente fra le braccia mentre il bambino scivolava in un sonno eterno, senza dolore, senza sogni. Indugiò un attimo, poi posò lo posò sulla panchina e gli mise fra le mani il piccolo gatto dal collo spezzato. Mai più freddo, fame o solitudine. E nessun incontro con giganti meno pietosi di lui. Era un buon dono.
Staccò il palloncino rosso, una macchia luminescente e liquida fra le luci e le ombre del parco, dal polso scheletrico del bimbo e lo osservò volare via. La luna scintillò sulle zanne lasciate scoperte da un sorriso soddisfatto. Ripulì gli angoli della bocca e pensò che aveva ancora fame.
La Fiera
Vincenzo aveva scovato il bambino, un esserino tutto pelle e ossa fragili, fra le bancarelle della fiera quand'era ormai buio pesto, mentre fuggiva inseguito da una grassa matrona berciante che pretendeva la restituzione delle frittelle di cui si era rimpinzato fino a scoppiare, dopo averle trafugate da un grosso paniere ricolmo posato accanto al grosso pentolone di olio bruciato e maleodorante. Lo aveva acchiappato al volo e non aveva fatto molta fatica a nasconderlo dietro il suo ampio corpo massiccio. Per sistemare la grassona era bastato un solo sguardo, abbastanza penetrante da intimorita e farla tornare sui passi come se fosse inseguita da un'orda di diavoli inferociti. Vincenzo pensò, con una curiosa sensazione di rimorso, che forse aveva esagerato un po' ma poi crollò le spalle, per quella notte non sarebbe stata affar suo.
Il bambino gli aveva piantato in faccia due occhioni ammirati e aveva teso fiducioso la manina scarna e sporca verso la sua, e insieme si erano diretti verso il muro di folla che riempiva le vie della città in festa. Teneva fra le braccia una minuscola palla di pelo sporca, puzzolente e miagolante. Più affamata di lui, il trofeo della giornata raccattato chissà dove.
- Come ti chiami? Da dove vieni? Che lavoro fai? - Aveva chiesto il bimbo con fare impaziente e vivace al suo nuovo amico, saltellandogli accanto per scaldarsi, mentre rabbrividiva. Vincenzo si era chiesto dove trovasse tutta quell'energia, doveva essere morto di fame. E di freddo, pensò mentre entrambi venivano investiti da una folata di gelido vento invernale.
- Mi chiamo Vincenzo, vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città, diciamo che lavoro nel sociale, mi occupo di persone bisognose di cure particolari. - Aveva risposto con un mezzo sorriso.
- E tu? Dove vivi? Dove sono i tuoi genitori e come ti chiami? -
- Vivo un po' qua e un po' là alla periferia della città - rispose ridendo il bambino - Mi chiamo Luca. E lui è Miao - rispose indicando la pallottola di pelo. Gli raccontò di aver perso i genitori in un incidente d'auto quando era ancora molto piccolo e di essere rimasto solo al mondo, di aver vissuto per gran parte della sua vita in un orfanotrofio. Ma la rigida disciplina gli stava stretta e così era scappato e da allora viveva come il randagio che teneva fra le braccia, per strada. Dormiva dove capitava, era diventato abile nel rendersi invisibile e nel vivere di espedienti che gli permettevano appena di sopravvivere. Vincenzo pensò che solo un miracolo gli aveva permesso di sopravvivere in quella giungla, fiducioso com'era.
Calcolò che doveva avere all'incirca sette, otto anni, non di più, e forse poteva fare qualcosa per quel piccolo orfanello. Lo squadrò con occhio critico.
Era coperto solo da una maglietta strappata e sbiadita e da un paio di jeans che avevano indubbiamente conosciuto tempi migliori, ed era così sporco che un bagno non sarebbe bastato a levare le croste che lo ricoprivano dalla punta dei piedi al ciuffo nero di capelli ritti sulla testa. Vincenzo si fermò ad una bancarella e comprò un giaccone pesante che fece indossare al bambino, poi fu la volta di un panino imbottito, di una cartata enorme di caramelle, di un paio di scarpe calde e confortevoli e infine il bimbo indicò sorridendo un palloncino rosso appeso ad un filo.
Vincenzo, con il suo mezzo sorriso indulgente, pagava senza lamentarsi, con le tasche ricolme dei soldi generosamente donati da uno degli amici che avevano incrociato il suo cammino quella notte. Luca gli domandò se poteva dormire da lui per qualche giorno, dicendo che non sarebbe stato di disturbo, che era abituato ad arrangiarsi e che lui era un gigante, ma proprio simpatico. Con uno sfavillio negli occhi Vincenzo rispose che sì, viveva solo e che forse era possibile. Magari avrebbe ospitato anche Miao, che in verità non sembrava averlo preso in simpatia come il bambino. Non faceva altro che soffiare al suo indirizzo, povera creatura infelice. Poco male, pensò Vincenzo, nonostante l'avversione si sarebbe preso cura anche di lui.
Si erano incamminati nella notte alla ricerca di una panchina appartata per sedersi e chiacchierarono quietamente per ore, osservando i rari passanti finchè non rimase nessuno, il silenzio interrotto dai soffi rabbiosi del gatto, mentre a Luca si abbassavano le palpebre per la stanchezza, con la bocca atteggiata ad un sorriso.
Vincenzo decise che era giunta l'ora. Cullò Luca dolcemente fra le braccia mentre il bambino scivolava in un sonno eterno, senza dolore, senza sogni. Indugiò un attimo, poi posò lo posò sulla panchina e gli mise fra le mani il piccolo gatto dal collo spezzato. Mai più freddo, fame o solitudine. E nessun incontro con giganti meno pietosi di lui. Era un buon dono.
Staccò il palloncino rosso, una macchia luminescente e liquida fra le luci e le ombre del parco, dal polso scheletrico del bimbo e lo osservò volare via. La luna scintillò sulle zanne lasciate scoperte da un sorriso soddisfatto. Ripulì gli angoli della bocca e pensò che aveva ancora fame.
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